L’omaggio di Manet, un impressionista francese che si affermò nella seconda metà dell’Ottocento, ad una fragile e acerba fanciulla dagli occhi scontenti: si tratta dell’Olympia, un dipinto a olio su tela di dimensioni 130 x 190 cm, attualmente conservato a Parigi nel Musée d’Orsay.
Nata come reinterpretazione di una tematica ricorrente degli artisti accademici, Manet si ispira non solo alle Veneri rinascimentali di Giorgione e in particolar modo a quella di Tiziano, ma anche a dipinti di suoi contemporanei come “La Maya Desnuda” di Goya e “Odalisca con schiava” di Ingres. Nel caso dell'Olympia, l'immagine dipinta destò un gran vociare e si parlò di scandalo rispetto ai precedenti modelli a cui l'artista si era ispirato, per lo stile pittorico rivoluzionario, per come aveva interpretato la nudità femminile e dal soggetto da lui scelto e rappresentato.
La fanciulla dipinta da Manet è una giovane prostituta, come si evince dalla presenza del fiore nei capelli raccolti e del nastrino di raso nero intorno al collo, che erano solite portare le cortigiane dell’epoca.
La ragazza è delicatamente adagiata su grandi cuscini e un lenzuolo spiegato, ha una posizione rigida, statuaria, guarda direttamente l’osservatore con uno sguardo penetrante, quasi di sfida, mentre si copre il pube con la mano, un segno di ironico pudore, considerando l'identità della ragazza ritratta. Ai suoi piedi è posizionato un piccolo gatto nero ingobbito, spaventato dalla presenza dell'osservatore fuori dalla tela, e che quasi si confonde con l'ombra dello scenario. In contrapposizione con il cagnolino che dormiva accanto alla Venere di Tiziano acciambellato sul letto, che in quel caso rappresentava metaforicamente la fedeltà come voleva la tradizione del simbolismo rinascimentale, questo gattino nero è una figura quasi nefasta, che conserva il suo antico legame con la stregoneria. Sullo sfondo di colore scuro costituto dalle tende e un paravento, si delinea la figura di una cameriera di colore che porge un grande mazzo di fiori, dono di un corteggiatore, dipinto secondo lo stile impressionista, cioè con un colore molto pastoso a grandi pennellate poco definite, che viste da vicino sembrano disordinate e confuse, ma che in lontananza rendono un effetto straordinariamente verosimile.
Il nome stesso della giovane, Olympia, era un diffuso nome d'arte tra le prostitute parigine di quei tempi ed può essere considerato un ulteriore rifiuto dell’atmosfera mistica delle bellissime dee, appunto olimpiche, della mitologia classica, protagoniste di opere in cui veniva dipinta una bellezza idealizzata e vagamente reale. L'Olympia differisce infatti dalla Venere di Urbino in forme e grazia, in quanto il corpo di questa giovane cortigiana risulta spigoloso, acerbo, sgraziato, contrario all'ideale di bellezza dell'epoca che preferiva ammirare corpi più morbidi e rotondi; è questo il risultato di un crudo realismo con cui l’artista intendeva dipingere una realtà più “reale” e non semplicemente un sogno o una fantasia.
A differenza della Venere tizianesca morbidamente sorridente e avvolta da una serenità surreale, Olympia assume una posa dritta, sprezzante, e un'espressione superba e vagamente malinconica, che oltre a suscitare la meraviglia nell'osservatore, lo trascina in una situazione quasi di imbarazzo, in cui lo spettatore viene portato ad un senso misto di vergogna e disagio, dove è più facile chiudere gli occhi piuttosto che affrontare la crudeltà del reale.
Il quadro venne esposto nel 1865 al Salon, una mostra d'arte dell'epoca organizzata per i giovani artisti emergenti, ma i giudici scelsero piuttosto di nasconderlo in un angolo più recondito dove si credeva sarebbe passato inosservato, e nonostante tale accorgimento l'Olympia fu lo stesso ampiamente criticata e Manet accusato di immoralità per aver ritratto obbiettivamente una così cruda realtà. Fu solo Èmile Zola, già famoso scrittore, a difendere l'artista in un suo articolo sulla rivista “la Revue du XXème siècle” per dimostrare la bellezza indomita e rivoluzionaria sul viso scarno di Olympia.
È la denuncia sociale all'epoca dei dipinti e della bellezza. Quando, con i fermenti sociali dell'ottocento, l'arte ha smesso di essere il sogno vagheggiato dagli artisti ed è diventata realistica, schietta, sincera, spesso inaccettabilmente crudele. L'Olympia di Manet è l'opera che parte dalla bellezza e sfocia senza dire nulla in una protesta fatta di colori spenti, come i fiori mai appassiti nelle mani della serva. Come le labbra chiuse, non sorridenti, di una ragazza che chiude il passato e mette gli occhi sul presente. |